Un giorno tra vita e morte

Quel giorno, un mercoledì, è iniziato presto, come quasi sempre. Prima che nascesse il sole, il caffè stava borbottando nella caffettiera. Colazione veloce e poi uscita mattiniera per andare a visitare una giovane che ha avuto un bimbo da poco. La famiglia è conosciuta: persone semplici e povere, che alle volte fanno fatica ad andare avanti, ma nonostante tutto continuano a lottare per la vita.

Fa ancora freddo quando arriviamo alla casa. La ragazza si trova sul letto, con le gambe incrociate, e al suo fianco il bimbetto, tutto fasciato secondo lo stile antico. E’ triste, o vergognosa, ma noi le vogliamo molto bene, e in quel momento sciogliamo il ghiaccio dell’imbarazzo con molto affetto. La mamma della ragazza inizia a piangere: “Già era difficile portare avanti i miei figli, e adesso ancora questo nipote!”. Anche la ragazza piange. Il padre della creatura non vuole prendersi responsabilità… Alcuni avevano consigliato l’aborto, e per ragioni varie, incluso il fattore economico, non hanno ucciso il bimbetto prima della nascita. Assicuriamo che è stata la scelta migliore, che scegliere per la vita è sempre la scelta giusta. E assicuriamo anche il nostro aiuto, con tutto il cuore.

Ed ora eccolo lì, con quegli occhi rotondi e un po’ a mandorla. La ragazza lo mette al seno e lui mangia sereno. Ad un certo punto lei sorride e dice: “Ha sorriso!” L’amore di mamma trionfa su tutti gli interrogativi e problemi che può comportare una maternità non desiderata!

Arriviamo a casa, e mando un messaggio all’infermermiera per sapere come possiamo concretamente aiutare la ragazza e il suo bimbo. Mi risponde immediatamente con una chiamata: “Hermanita, sono sola nell’ambulatorio… un ragazzo si è impiccato… può venire?”

Mi precipito, ma già altre persone sono venute a conoscenza e si dirigono all’ambulatorio. La mamma del ragazzo, di 15 anni, è distrutta: madre di 14 figli, tutti vivi e sani, questo era il quartultimo. Piange, piange a dirotto, e grida: “Wawitay, wawitay!” (= figliolo mio, figliolo mio!). I suoi fratelli, presenti in Vilacaya, arrivano vestiti da lavoro: alcuni stavano nel campo, altri in casa preparando la chicha per la festa del prossimo venerdì. Tutti piangono, tutti vogliono andare sul luogo della morte, ma non li lasciamo: sarebbe troppo duro vederlo appeso ad un albero.

Alla fine, ci avviciniamo al posto del suicidio, senza arrivare lì. Solo vediamo le persone con lo sguardo all’in sù… e poi, il corpo portato sulla barella, coperto da un phullo (una coperta tessuta a mano). La gente piange, collabora: Vilacaya, famosa alle volte per le sue beghe, sa unirsi nel dolore e piangere con chi piange.

Rimaniamo tutti pensierosi: io lo ricordo con la sua faccia da discolo, e discolo lo era veramente! Aveva lasciato la scuola e lavorava già nelle miniere. Ogni tanto ritornava al paese con regali e aiuti per i suoi fratelli più piccoli. Era già cresciuto, anche se aveva solo 15 anni. Più o meno l’età della ragazza mamma, che aveva scelto la vita. Mentre lui, chissà per quale ragione, ha scelto la strada della morte.

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