… una città? No il deserto. E non erano fili d’erba, era una foresta.
Ma di cosa sto parlando? Dell’arido, pelato mondo andino!
Quando sono arrivati gli spagnoli era già senza alberi, e per molto tempo si è pensato che il clima non avesse permesso lo sviluppo di vegetazione, se non quell’erba dura che solo i lama possono mangiare. Studi recenti (oddio, dell’ultimo secolo, voglio dire) hanno dimostrato che, prima dell’intervento umano sulla natura, nelle Ande c’erano boschi di churqui (leggi: ciurchi) e molle (leggi: molie), le piante originarie della zona. Ma siccome si tratta di un’ecosistema molto delicato, dovuto alle condizioni climatiche a volte estreme, e comunque sempre difficili, il disequilibrio creato dall’azione umana non ha trovato nella natura la forza di rigenerarsi, e siamo rimasti… pelati!
Si dice che è stato soprattutto l’arrivo della colonia e lo sfruttamento delle miniere a dare il colpo finale ai boschi: infatti, per far funzionare i forni per fondere l’argento, era necessaria molta legna per fuochi grandi.
Anche se è una novità, trovata nelle letture del mio corso sull’ ecosistema, non mi stupisce più di tanto: mi sono ricordata che, per andare a Caiza D, quando stavano costruendo la strada, c’era una deviazione che faceva passare in una conca, un pianoro ricorperto da churqui. E anche a Vilcaya, passeggiando lungo il fiume, si entra in un piccolo boschetto di churqui, e lungo le rive del corso d’acqua ci sono tanti molle antichi.

Il churqui è un albero non molto alto, di solito: arriva a qualche metro, e i suoi rami sono spinosi: i ragazzi li usano per fare la corona di Gesù, quando devono rappresentare la sua Passione. E mi chiedo se non fosse proprio questa pianta usata per l’umile, regale corona di nostro Signore.
Nell’inverno perde le foglie e sembra un albero secco. Poi, in settembre o ottobre, iniziano a germogliare le nuove, di un verde tenero, che contrasta con il marrone imperante del paesaggio. E sempre per iniziare a colorare un po’ la monotonia dell’aridità… fa sbocciare fiori gialli, piccolini, disposti a spighette.
Il molle non perde mai le foglie: è l’unico a tenere duro nella stagione secca, anche se il suo verde è un po’ sofferto, per mancanza d’acqua e per il vento e la polvere che flagellano i suoi rami, che vanno verso terra, come un salice piangente. Mi piace vedere i bambini che lo usano per giocare “alla casa”, e il buon molle sembra proprio proteggerli come un mantello di foglie.
Molte volte si parla di riforestare le Ande, ed i comuni alle volte consegnano alle scuole e comunità alberi da piantare, ma non è facile: i ragazzi della scuola e le autorità originarie si impegnano, recintando ciascuna per proteggerla dalle gelate, dalle capre e dalle pecore. E poi, irrigazione continua, fino a quando le radici sono ben affondate nella terra. Ma generalmente non si piantano questi alberi locali, piuttosto olmi ed altre specie arrivate in America con gli spagnoli. Purtroppo, si piantano anche eucalipti, che sono spietati bevitori delle falde acquifere, e quindi non indicati per ambienti con scarsità di acqua.

Nel mentre, i campi sono abbandonati, perché il clima è sempre più inclemente… e poco per volta, churqui e molle ritrovano gli spazi per ricrescere… Già si vede, per esempio a Mulahara: nel pianoro poco per volta crescono i churqui, e forse tra qualche anno sarà un boschetto novello.
Certamente, il clima andino non permette sviluppi molto rapidi. Ma chi vivrà, vedrà… se, mentre nell’oriente massacriamo l’Amazzonia e il bosco Chiquitano per espandere il latifondo, magari l’occidente darà il suo umile e silenzioso contributo con le foreste di churqui…